Specchio della psiche e della civiltà

 

 

GIUSEPPE PERRELLA

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XVIII – 01 maggio 2021.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: SAGGIO BREVE/DISCUSSIONE]

 

 

(Quarta Parte)

 

6. Fuori della domus in cammino alla ricerca della via che porta al Medioevo. Lasciando la domus romana con la sensazione, facile da comprendere per chi abbia visitato la Pompei archeologica, di aver percepito il sapore di un mondo tanto lontano nel tempo quanto vicino alla parte più intima e naturale della nostra sensibilità umana, mi chiedo: quanti di noi vorrebbero poter parlare con gli interpreti di quella vita quotidiana? Perché è naturale porsi il problema di quanto si possa capire di quel modo di sentire che ha costituito la nostra principale radice antropologica, interrogando i segni, le tracce, le forme e le atmosfere di quella vita.

Per alcuni aspetti della vita sociale un rinvenimento archeologico può dire veramente tanto se non tutto: pochi mesi fa è stato rinvenuto in Pompei un termopolio in uno stato di conservazione stupefacente, di gran lunga superiore a quello di Asellina[1], e caratterizzato da un bancone in muratura decorato con splendidi dipinti[2]. Il ritrovamento ha fornito materiale testimonianza su cibi, cucina e gusti alimentari del tempo. Allo stesso modo possiamo sapere dell’architettura, dell’arte, dell’arredamento, dell’abbigliamento e perfino della cosmetica, ma possiamo dedurre ben poco circa l’ideologia familiare e il rapporto psicologico con la cultura politica e religiosa.

Infatti, il nodo principale rimane il grado di astrazione consapevole e di intenzionalità pianificatrice col quale si attuavano quotidianamente i programmi di vita e il profilo di ideazione alla base delle azioni non previste ma dettate dalle circostanze. Gli stili comuni caratterizzano le forme del costume, ma nascondono l’aspetto più importante per la nostra esigenza di comprensione: quali e quanti conferivano senso al proprio agire attraverso la coerenza fra principi e pratica in un’azione concepita al fine di incidere sulla coscienza collettiva o che abbia generato effetti e cambiamenti non volontariamente perseguiti, ma prodotti quali epifenomeni di azioni pianificate per scopi personali o per ottenere vantaggi per la famiglia, la casa o il gruppo sociale di appartenenza?

Come si fa a sapere, per rimanere all’esemplarità metonimica di Pompei, se prevaleva in città la cultura della casa fondata sulle regole di responsabilità, continenza e operosità, o se era più seguita quell’interpretazione gaudente della vita pagana rappresentata tradizionalmente dalla casa dei Vettii?[3].

Oggi sappiamo che non credere in una vita ultraterrena o, al contrario, vivere nella prospettiva di un giudizio di Dio su tutta la propria vita dopo la morte, influenza la psicologia individuale in modo rilevante e caratteristico, anche se non sempre evidente. Una tale differenza di atteggiamento può rilevarsi nel modo di interpretare la vita e concepire quella dei propri figli.

Si pensi alla differenza che esisteva presso gli Ebrei fra i Sadducei, che non credevano nell’esistenza di un’anima immortale, e i Farisei del periodo aureo che credevano nell’immortalità dell’anima e nella resurrezione nel giorno del Giudizio. I Sadducei, pur rispettando il decalogo e le principali norme della Torah, non ritenevano necessario seguire alcuna altra prescrizione, perché consideravano il rispetto della Legge finalizzato a raggiungere serenità e benessere in armonia e condivisione d’amore col prossimo, durante la vita terrena. Il popolo sadduceo giunse a un compromesso etico-politico con i Romani e il loro stile di vita, perché condivideva, per molti aspetti, il carpe diem romano e ne ammirava l’efficienza nella vita pratica, che accresceva occasioni e possibilità nei giorni da vivere.

I Farisei, al contrario, consideravano la vita terrena un tempo di prova per acquisire meriti davanti a Dio, coltivando la purezza dell’anima, dedicandosi alla meditazione e all’osservanza scrupolosissima di ogni prescrizione aggiuntiva che avrebbe potuto costituire ragione di indulgenza nell’altra vita. I Farisei temevano di contaminarsi nell’incontrare i pagani ed evitavano qualunque atteggiamento che potesse assomigliare a quello tipico dei Romani, caratterizzato dalla mancanza di timore e sottomissione a un Dio che scruta la coscienza.

Dunque, è lecito supporre che una parte non trascurabile dello stile psicologico dei nuclei familiari costituenti il tessuto culturale dei popoli che ci hanno preceduto, sia stato improntato dal credere o non credere in una vita ultraterrena.

Per rendersi conto di quanto questa differenza di fondo possa influenzare lo stile psicologico in rapporto alla vita di relazione, è sufficiente soffermare l’attenzione sulla comune possibilità di incorrere in una trasgressione morale. Se per il trasgressore l’errore esiste solo come rilievo di uno sbaglio da parte di qualcuno, basta nasconderlo alla vista per averlo eliminato; se il trasgressore è credente, sa di aver commesso un peccato: l’errore è stato letto da Dio nell’anima e non si cancella con astuzie e furberie, perché esiste in assoluto e attiene alla dimensione qualitativa dell’essere.

Le due condizioni morali dello spirito corrispondono anche a due diverse potenzialità psicologiche e neurofunzionali: il trasgressore che non ha introiettato il giudizio divino si può facilmente avvalere della capacità astuta di rappresentarsi in modo positivo agli altri per conservare equilibrio ed autostima, preservando il tono dell’umore connesso ad una prova efficace di equilibrio psicoadattativo; il trasgressore credente, se non ha modo di emendarsi e ritrovare serenità attraverso il perdono sacramentale, vive uno stato di colpa con effetti simili ad una condizione di stress che, sommata ad altre, può compromettere il tono dell’umore e ridurre l’autostima.

Le neuroscienze ci hanno insegnato che questi due stati psicologici corrispondono a due differenti regimi funzionali del sistema nervoso centrale, col primo che esprime un rapporto ottimale di integrazione fra l’attività dei grandi sistemi cerebrali e il secondo che riflette uno squilibrio dovuto ad eccesso funzionale dei sistemi neuronici che mediano la risposta allo stress, simile ad uno stato di entropia col dispendio energetico improduttivo dell’ansia, che sottrae risorse ai circuiti neuronici importanti per la stabilità interiore e la forza psichica.

Il furbo di tre cotte, come si dice in Toscana[4], o “figlio di buona donna” come si dice dappertutto, è una persona che non patisce sensi di colpa, sia per costituzione endofenotipica cerebrale iporeattiva, sia per aver sviluppato una distanza interiore dalle cause di stress e dispiacere.

Tale stile funzionale caratterizzato in termini cognitivi e descritto dagli autori classici negli eroi come Ulisse, dotati di quella particolare risorsa dell’intelletto chiamata metis e personificata dalla divinità figlia di Oceano e Teti, non è semplice astuzia, ma una capacità di ingegno esercitata con lucidità e “sangue freddo”, ossia senza ansia da stress, anche nelle circostanze più difficili.

Un tale stile psico-comportamentale, che nella psicologia di relazione si basa sulla capacità di fingere, recitare e ingannare il prossimo, non è compatibile con la concezione cristiana – e infatti Dante colloca Ulisse all’Inferno – ma apparteneva profondamente alla radice antropologica greca. Il mito, contestato da Aristotele, dell’invenzione della commedia da parte di Susarione di Megara nasce proprio dalla tradizione, riportata in innumerevoli documenti, del popolo di quella città di vivere di espedienti, camuffamenti, raggiri, inganni, in una costante recitazione di ruoli improvvisati lungo le vie, nelle piazze e nei mercati sempre gremiti di gente, che era allo stesso tempo interprete e pubblico sul palcoscenico della realtà[5].

La vita organizzata su base ateistica o pagana può facilmente essere concepita tutta in funzione della forma rappresentata agli occhi e alla coscienza degli altri: pura esteriorità. La vita del credente di tradizione giudaico-cristiana, quando autentica, è tutta rivolta alla sostanza della realizzazione della volontà divina.

Senza troppo forzare, si può riconoscere anche in queste due tendenze la prossimità con le due visioni contrapposte della bellezza, ossia perfezione della forma o manifestazione del valore interiore.

In base a queste considerazioni, il paragone generico fondato su una caratterizzazione tipica o prevalente, tra soggetti di età romana e soggetti di età cristiana, può suggerirci delle ipotetiche e ragionevoli deduzioni, che sfortunatamente non possono essere verificate. Ad esempio, si può dedurre che, in una personalità sviluppata ed educata al cimento con gli dei, l’autostima potesse più spesso esprimersi in atteggiamenti di indipendenza e coraggio sociale fino alla sfrontatezza e alla tracotanza; mentre, in una personalità formata al timor di Dio e all’amore del prossimo, l’autostima potesse più spesso supportare l’esercizio gratificante della capacità di perseverare nell’umiltà, così come nella fortezza e nella temperanza, realizzando la sottomissione obbediente ai comandamenti.

Il modo di sentire poteva influenzare i gusti, come è sempre accaduto e accade anche oggi, supportando forse anche per selezione sociale l’affermarsi di uno stile: una ragazza col primo tipo di sensibilità sarebbe stata attratta da un giovane con un atteggiamento disinvolto, dominante e disinibito, che a una vergine cristiana magari sarebbe apparso rozzo, sgradevole e villano.

Da meno di un secolo si cerca di conoscere, attraverso la storia della civiltà, i tratti psico-antropologici dei popoli antichi; ma si sconta il problema di una lunga tradizione in cui la storia insegnata a scuola riguardava quasi esclusivamente i grandi avvenimenti politici e politico-economici[6], relegando gli altri argomenti alla dimensione del trascurabile o, all’opposto, dello studio specialistico. Anche se oggi misconosciuta, dimenticata o non compresa, la ragione più profonda per cui si studia la storia è l’espansione della coscienza attraverso la comprensione del passato.

La sola cosa che possiamo fare per amore della conoscenza è tenere vive tutte le possibilità suggerite dalle tracce archeologiche e non oscurarne una parte, come accade a chi si lasci attrarre dall’uso di stereotipi semplificativi ricorrenti in alcune narrazioni didattiche e nella maggior parte di quelle divulgative e cinematografiche.

Uscito dalla domus, mi sono soffermato sulle riflessioni che ho appena scritto, ma nella mia mente c’era già la domanda: cosa lega quel mondo romano alla cultura medievale?

Nel tempo, con la lettura di molti saggi, mi sono convinto che la differenza principale tra le due epoche sia tutta nel registro della rappresentazione storica, e dunque sia, per certi versi, fittizia. Sarò più chiaro.

La cultura ellenistica[7] è rappresentata dalla solare immagine di templi che si stagliano contro il cielo azzurro di una natura incontaminata, dove tradizione religiosa e saggezza filosofica dei Greci erano diventate romane e, pur con le differenze esistenti tra i due popoli, fornivano attraverso i miti la chiave per una gestione poetica, narrativa e creativa dell’attualità, collegata dall’oratoria pubblica all’eredità del passato e alle speranze del futuro. Un quadro in totale antitesi col plumbeo grigiore della società medievale rinchiusa in torri e castelli isolati da fossati, rappresentata da uomini nascosti dentro pesanti armature e castellane prigioniere in fortezze inaccessibili; dove saggezza e sapienza non sono trasmesse con l’oratoria nelle piazze, ma vergate a fatica, a lume di candela, da monaci amanuensi miniatori nell’isolamento claustrale.

Si tratta del confronto artificioso tra due stereotipi che, pur fondandosi su elementi reali e fattuali, non sono a rigore comparabili, perché il secondo dei due è ottenuto raccogliendo caratteri emblematici e distintivi che sono andati sviluppandosi progressivamente, comparendo e affermandosi in un arco temporale di circa un millennio.

Certamente, nei secoli che seguirono Costantino, con la diffusione dell’insegnamento dei Padri della Chiesa e la conquista delle coscienze in tutto il territorio dell’Impero da parte del cristianesimo si era compiuta una metamorfosi radicale che dovrebbe essere distinta dal semplice cambiamento nello stile di vita. Una copiosa storiografia ha tradizionalmente messo insieme cause ed effetti della regressione e stagnazione culturale per farne un emblema negativo all’insegna del quale interpretare tutto il periodo. Negli anni recenti i grandi medievalisti ci hanno invece presentato una realtà molto più complessa, con luci ed ombre non riducibili allo schematismo elementare adottato in passato. Nel Medioevo si sono avuti tanti “Rinascimenti” che sono rimasti confinati nella sede di origine, per l’isolamento dei popoli e dei singoli.

A questa caratteristica si dà in genere la motivazione della militarizzazione della società, e con buone ragioni: basti pensare alle case-torri che ancora si possono ammirare in Firenze, fra le quali le famiglie alleate costruivano dei collegamenti sospesi per trasferirsi dall’una all’altra senza correre il rischio di incontrare in strada membri di famiglie appartenenti alla fazione rivale. Ma spesso si trascurano ragioni che hanno avuto un peso anche maggiore nel condizionare le abitudini sociali.

La lebbra è stata endemica in Europa per tutto il Medioevo e la paura del contagio attanagliava tutti: leggi che ordinavano la segregazione dei lebbrosi, ne punivano severamente il matrimonio e disponevano la costruzione di lebbrosari furono emanate già da Rotari, da Pepino (757) e da Carlomagno (789), anche se poi la massiccia costruzione dei lebbrosari avverrà nei secoli successivi. È documentata l’esistenza di oltre 19.000 di questi edifici, 2.000 dei quali nella sola Francia[8], e in Italia anche il più piccolo centro abitato aveva almeno un lebbrosario[9]. I lebbrosi autorizzati per qualche ragione ad uscire dal confinamento dovevano indossare abiti particolari, costellati di sonagli che tintinnavano ad ogni movimento, per allontanare chiunque fosse nel raggio di centinaia di metri. Dove si sapeva che c’erano stati dei lebbrosi, la gente non voleva più passare.

Le frequenti epidemie di peste hanno in quell’epoca anche dimezzato il numero degli abitanti di una città, come era accaduto in Firenze, ed erano temutissime, come si legge nei diari e nelle lettere degli artisti. Il solo modo per proteggersi dal rischio di un incontro mortale era rimanere in isolamento nelle isole domestiche o monastiche. Anche ripararsi rimanendo chiusi in un rifugio durante quello che oggi chiamiamo il “picco dei contagi” era ormai costume nel XIV secolo, come si evince anche dal Decamerone, scritto nell’anno successivo all’epidemia di peste nera che aveva mietuto vittime in tutta Europa.

Isolamento e coscienza sorvegliata dal “vivere alla presenza del Signore” sono sicuramente due elementi imprescindibili per comprendere il modo di sentire medievale che, interpretato come cambiamento estetico, si tenta di desumere e dedurre paragonando i frontoni dei templi alle guglie gotiche o le decorazioni del terzo stile pompeiano alle miniature dei codici.

Anni fa ho potuto ascoltare Umberto Eco, indotto a ritornare sul suo libro più noto, Il nome della rosa, raccontare di aver cercato con ogni mezzo e artificio di immergersi nella realtà del passato per riuscire a indurre la sua mente a pensare come quella di un monaco medievale, per riuscire ad entrare in quell’ordine di idee, in quell’orizzonte ontologico, in quella dimensione metafisica del rapporto con l’ordine simbolico. Aveva compreso che, per soddisfare la sua esigenza di conferire sostanza umana attuale a un racconto storico profondamente calato nel sistema di segni del passato, non fosse sufficiente un’operazione logica di immedesimazione della sua cognizione con quella che la verosimiglianza di un copione teatrale poteva attribuire a un personaggio di quell’epoca: era necessario provare a mutare il modo di sentire, cercare di entrare con la propria vita mentale nell’orizzonte affettivo della spiritualità di un uomo consacrato del Medioevo.

È proprio questa propensione a entrare nella dimensione mentale di un soggetto storico che mancava a Foucault per poter realmente essere, come amava definirsi, un archeologo del sapere[10].

 

7. Qualche passo in punta di piedi nel Medioevo in rispettoso ascolto dei grandi. In occasione del ritrovamento di nuovi codici vergati da Francesco Petrarca, presso le sale del complesso monumentale di San Lorenzo in Firenze fu allestita, con gli affascinanti e preziosi tomi dell’autore del Canzoniere, una grande mostra che visitai più volte anche per il piacere di conversare con una preparatissima organizzatrice che ci concesse in via eccezionale il privilegio di sfiorare con le dita alcuni frontespizi e si rivelò interessata allo studio su Pontormo che avevamo condotto in collaborazione con gli Uffizi, l’Accademia di Firenze e la RAI[11]. Per me fu l’occasione per rendermi conto che gli esegeti dei testi petrarchiani avevano rotto gli indugi e proclamato quanto si poteva solo intuire dalla lettura delle opere più note: Petrarca era un filosofo.

L’appellativo era ritenuto poco confacente a un uomo di profonda e sincera spiritualità cristiana e, dunque, i suoi contemporanei preferivano identificarlo con i titoli ottenuti per la sua arte letteraria; ma il motivo per cui credo possa esserci di grande aiuto al fine di cercare di entrare almeno un po’ nella dimensione psichica del tempo è il suo alto grado di coscienza individuale congiunto ad un raro livello di consapevolezza storica.

È sempre difficile avere una visione oggettiva della realtà in cui si è immersi; pertanto, rendersi conto della sua capacità di analisi secondo la distanza prospettica di un nostro contemporaneo, è sorprendente. Francesco Petrarca conia il termine “Medioevo”, che sarà tradotto in tutte le lingue scritte e adottato in tutto il mondo, presagendo tempi avvenire in cui la cultura, sia pure in forme diverse da quella classica, si sarebbe completamente espressa nutrendo sé stessa in forme dinamiche di crescita ed evoluzione.

Nel Secretum, l’opera latina in cui vuole scandagliare il più profondo segreto della sua anima, Petrarca usa lo strumento del dialogo platonico, che aveva appreso dai testi latini delle traduzioni di Cicerone, per affrontare il nodo della sua inquietudine spirituale che genera sofferenza psichica. Ma, traduciamo la frase finale dell’opera che poi diverrà il titolo per intero, perché contiene lo scopo e il programma del lavoro di analisi psichica che il cantore di Laura intende svolgere: Secretum o De secreto conflictu curarum mearum.

Dopo il “De” di argomentazione (“riguardo”, “circa”) la parola latina sta ad indicare più ciò che è profondo e pertanto “inaccessibile”, come nella locuzione “le segrete del castello”, che ciò che è segreto in quanto taciuto. In altri termini, la dimensione psichica che sei secoli dopo sarà considerata nell’ordine dell’inconscio. Il termine conflictu indica con precisione la causa del turbamento spirituale e della sofferenza psichica. Curarum: il vocabolo “cura”, comune al plurale nell’italiano antico per indicare le ansie, le angosce e le preoccupazioni, ancora è impiegato nelle versioni italiane dei Vangeli con lo stesso significato. Nell’insieme si può rendere così: Riguardo il profondo conflitto delle mie angosce.

I protagonisti del dialogo sono Sant’Agostino, Petrarca e una donna silente: la Verità[12].

Agostino raccomanda a Petrarca un costante pensiero rivolto alla morte, non intesa in astratto ma quale termine della propria vita, la cui attualizzazione accresce la consapevolezza del presente, e inizio della vita ultraterrena, che può essere il patimento eterno per chi rimane come il poeta nell’accidia dell’indecisione alla completa rinuncia a sé stesso per la santità. Ma la morte deve essere pensata ma non sentita. Cosa si intende? Si intende che non si deve correre il rischio di entrare nella dimensione mortale dei sentimenti: oggi diremmo che non si deve entrare nello stato mentale psicopatologico della depressione che, per la sua capacità di distruggere senso, si configura già come morte nella vita, tradendo ciò che Gesù ha sempre ricordato[13].

È interessante e moderna la paura che si possa cadere in depressione, una nefasta possibilità da scongiurare: la melanconia è “una funesta peste dell’anima”, e quando si è presi da questa malattia, aegritudo, il cui solo nome fa inorridire, si rimane prigionieri[14]. Da temersi più di altre “passioni” che portano a peccare, perché sono passeggere, mentre questa non lo è: perdura ed è come la presenza nell’anima di “una notte tartarea e di un’acerbissima morte”[15].

Petrarca non aveva strumenti di conoscenza e lessico per distinguere un moto dell’animo o una pulsione da uno stato mentale, e usava in tutti i casi il termine latino che traduciamo con “passione” secondo il gergo religioso, ma comprendiamo perfettamente cosa voglia dire e facilmente desumiamo la sua sofferenza ansioso-depressiva, associata al timore di cadere in uno stato più grave di anaffettività e abulia. Possiamo anche dedurre che lo stato depressivo in cui viveva perdurava già da un po’ di tempo ed era diventato equilibrio psicoadattativo, cosicché, pur desiderando guarire, non riusciva ad uscire dai circoli viziosi del suo stato, come accade ai pazienti ancora oggi: “…mentre mi pasco di lacrime e dolore sono afferrato da una sorta di oscuro piacere, tanto che malvolentieri me ne distacco”[16].

La dimensione profonda della sofferenza psicologica di Petrarca, oltre ad essere di estrema attualità come ogni autentica espressione dello spirito umano che non muta mai nella sostanza, ci fornisce i termini di una sensibilità cristiana allo stato puro, non compromessa con istanze, imperativi e abitudini neopagane come tanto spesso accade oggi. Basterebbe anche solo il Secretum per comprendere cosa e come sia la bellezza in Petrarca.

Per il divin poeta, invece, c’è il problema di una combinazione di criticabili schematizzazioni didattiche, avversione pregiudiziale da parte di alcune generazioni di studenti[17], atteggiamento snobistico degli intellettuali ideologici e denigrazione parodistica degli aspetti meno compresi del mondo medievale, che nemmeno anni di spettacoli di Roberto Benigni dedicati alla lettura e alla recitazione della “Commedia” sono riusciti a neutralizzare. In particolare, rimane la banalizzazione canzonatoria dei sonetti amorosi.

Il programma del dolce stil novo di Dante Alighieri a Firenze e Guido Guinizelli a Bologna non è mettere insieme un po’ di pensieri melensi e frasi sdolcinate per ottenere i favori di fanciulle tanto affascinanti quanto rigorose nella loro irreprensibile condotta morale, ma educare le coscienze con l’arte poetica alla bellezza dell’amore, concepito nella purezza divina della bontà, per tentare di cambiare lo spirito di un mondo che si professava cristiano ma era percorso da odio inestinguibile, brama di potere, grettezza d’animo, crudeltà barbara e ferocia militare. Un mondo che aveva frustrato le speranze dei giovani di quella generazione, a cominciare dal concittadino quasi coetaneo del sommo poeta, Giotto di Bondone, che aspirava ad evangelizzare, civilizzare e ingentilire con la sua pittura i contemporanei[18].

Dante desiderava ritornare alla spiritualità autentica delle comunità cristiane degli inizi, che mille anni prima aveva suscitato l’ammirazione dei pagani; quella sincera e convinta adesione al logos evangelico lontano dalla secolarizzazione della chiesa e dai compromessi con i poteri e le logiche del mondo che cancellavano l’agape fraterna in una società capillarmente militarizzata. Per una umanità rinnovata nel Cristo sceglie come modello le donne, che non girano per le vie della città con la spada al fianco, non tendono agguati ai rivali di parte o fazione, e non uccidono fratelli in battaglia chiamandoli nemici. Sceglie le donne pure, che vivono la castità non come l’astinenza stoica del soldato, ma quale obbedienza che accresce la propensione al dono spirituale di sé sull’esempio di Maria.

Nel celebre sonetto Tanto gentile e tanto onesta pare Dante celebra la bellezza spirituale di Beatrice, rendendola per metonimia con due termini, il primo dei quali si riferisce alla delicatezza espressa nei modi, e il secondo alla probità dell’animo. La sua virtù è cristianesimo incarnato e interpreta la divina volontà alla quale rimanda, generando nella coscienza del peccatore un sentimento di indegnità, che ne inibisce lo sguardo e ci fa pensare alla sensazione di vergognoso pudore provato da Adamo ed Eva dopo aver peccato, quando si accorsero di essere nudi al cospetto di Dio[19]. Beatrice, come donna e prototipo, è bellezza, e rendere a parole il suo modo di essere è arte, come lo è quella del pittore che riproduce quanto è ammirevole nel creato.

Dante insegna che nati non fummo a viver come bruti / ma per seguir virtute e conoscenza, ossia percorrere le vie del conoscere per trovare la sapienza ed esprimerla poi attraverso la pratica delle virtù. Ma ciò è possibile solo se si concepisce quanto si è conosciuto e compreso secondo l’astrazione dell’obiettivo; e in tal senso: essere uomini è avere ideali e impiegare tutte le forze e le risorse di volontà di cui si dispone per poterli realizzare[20]. Per Dante è questo il modo migliore per mettere a frutto i talenti ricevuti, nell’accezione metaforica della parabola, e compiere il progetto divino che esiste per ciascuno di noi.

 

 

[continua]

 

 

L’autore della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura degli scritti di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Giuseppe Perrella

BM&L-01 maggio 2021

www.brainmindlife.org

 

 

 

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[1] Il thermopolium di Asellina in Via dell’Abbondanza, finora proposto ai visitatori come prototipo di fast-food del I secolo d.C. e simile a quelli di Ostia antica, aveva incassate nel banco giare contenenti cibi caldi e bevande fresche.

[2] Raffigurate con colori bene conservati, intensi e vivaci, una coppia di oche germane destinate alle braci accanto a un gallo vivo e realistico; in un riquadro successivo, bordato di nero come il primo sullo stesso fondo giallo cromo scuro, un cane tenuto al guinzaglio. Nel pentolame di coccio sono stati reperiti resti di capretto, lumache, una sorta di paella di carne e pesce, accanto a vino corretto con le fave e pronto per la mescita.

[3] Portata alla luce nel 1894 e restaurata nel 2016, la casa dei ricchi commercianti Aulo Vettio Restituto e Aulo Vettio Conviva presenta, fra i dipinti che la decorano, la figura di un Priapo che pone sul piatto di una bilancia il membro con un sacchetto di monete come contrappeso. Una simbologia decisamente lontana tanto dallo stoicismo ellenistico quanto dal nascente cristianesimo italico. Risulta che i Vettii, candidati al governo della città, conducessero vita dissoluta.

[4] L’espressione risale a Pietro Aretino, verosimilmente derivata dal superlativo conferito alla raffinatezza dello zucchero dalle tre cotte o cotture.

[5] Per questa prerogativa accostata a Napoli che, secondo alcuni, avrebbe avuto una socialità recitativa perché fondata nell’800 a.C. dai Cumani, che avevano origine greca. Megara, rivale di Atene, fu patria del matematico Euclide e del poeta di elegie Teognide.

[6] Ai protagonisti di tali eventi, quali re, imperatori, governanti e capi degli eserciti, così come alle figure rilevanti e celebrate in ogni campo di attività umana, implicitamente si attribuivano facoltà di pensiero, riconoscendo il ruolo di “testa” di un organismo sociale, in cui tutti gli altri sono implicati quali membra non pensanti, prive di personalità e dignità individuale, a meno che non si esibiscano storicamente in qualche impresa memorabile.

[7] Intesa nell’accezione più estensiva di Ariès e Duby e non limitata al periodo che termina con la nascita dell’Impero Romano: cfr. Philippe Ariès e Georges Duby (a cura di) La vita privata dall’Impero Romano all’anno mille, CDE (su lic. Laterza), Milano 1987.

[8] Hirsch, Handbook of Geographical and Historical Pathology, p. 7, Creighton, London 1885.

[9] Antonio Ludovico Muratori (a cura di) Antiquitates Italicae Medii Aevii, III volume, 53, ex Typographia Societatis Palatinae in Regia Curia, Mediolani 1740.

[10] Lungi da me l’idea di paragonare un filosofo e storico, qual era Foucault, a un linguista appassionato di semiologia e dedicato alla narrativa, come Eco. Mi riferisco qui solo alla capacità di cogliere la psicologia dei soggetti storici.

[11] In precedenza erano stati catalogati, grazie a ventisei collaboratori di Michele Feo nel 1991 (“Le Lettere”, Firenze), 251 codici petrarcheschi reperiti presso le biblioteche fiorentine.

[12] In passato, ho proposto analogie e differenze con il setting psicoanalitico e con il rito psicoterapico ante litteram che si svolgeva presso il santuario di Trophnios a Lebadea in cui esisteva il trono di Aletheia (la Verità) e il conflitto della persona in ansia era gestito tra “memoria” e “dimenticanza”.

[13] “Il Padre ha creato tutto per la vita” e “Lasciate che i morti seppelliscano i propri morti” erano frasi evangeliche di uso quotidiano all’epoca.

[14] Cfr. Franco Rella, Figure del male, p. 88, Feltrinelli, Milano 2002.

[15] Cit. in Franco Rella, op. cit., idem.

[16] Traduzione dal latino tratta da Franco Rella, op. cit., idem.

[17] Una realtà resa bene nella sua granitica superficialità da Paolo Virzì nei giudizi espressi dal protagonista del film “Ovosodo” sugli autori della letteratura italiana all’esame di stato.

[18] Si vuole che anche nell’opera che non poté compiere, cioè il celebre campanile, vedesse un mezzo di suggestione simbolica per l’elevazione spirituale del popolo.

[19] In sostanza, la radice culturale del sentimento cristiano che ritroviamo in Gregorio di Nissa e di cui ho scritto in precedenza (Note e Notizie 06-03-21 Ritrovare nei segni le ragioni della bellezza).

[20] In passato ho conversato molte volte su questi argomenti con don Roberto Tassi, allora presidente di un’antica e prestigiosa società dantesca fiorentina, oltre che rettore della Chiesa di Dante in Firenze.