Specchio della psiche e della
civiltà
GIUSEPPE
PERRELLA
NOTE E NOTIZIE - Anno XVIII – 01 maggio
2021.
Testi
pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di
Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie
o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione
“note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati
fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui
argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione
Scientifica della Società.
[Tipologia del testo: SAGGIO BREVE/DISCUSSIONE]
(Quarta Parte)
6. Fuori della domus in cammino alla
ricerca della via che porta al Medioevo. Lasciando la domus romana
con la sensazione, facile da comprendere per chi abbia visitato la Pompei
archeologica, di aver percepito il sapore di un mondo tanto lontano nel tempo
quanto vicino alla parte più intima e naturale della nostra sensibilità umana,
mi chiedo: quanti di noi vorrebbero poter parlare con gli interpreti di quella vita
quotidiana? Perché è naturale porsi il problema di quanto si possa capire di
quel modo di sentire che ha costituito la nostra principale radice antropologica,
interrogando i segni, le tracce, le forme e le atmosfere di quella vita.
Per alcuni aspetti della vita
sociale un rinvenimento archeologico può dire veramente tanto se non tutto:
pochi mesi fa è stato rinvenuto in Pompei un termopolio
in uno stato di conservazione stupefacente, di gran lunga superiore a quello di
Asellina[1], e caratterizzato da un bancone in muratura decorato con splendidi dipinti[2]. Il ritrovamento ha fornito materiale testimonianza su cibi, cucina e
gusti alimentari del tempo. Allo stesso modo possiamo sapere dell’architettura,
dell’arte, dell’arredamento, dell’abbigliamento e perfino della cosmetica, ma possiamo
dedurre ben poco circa l’ideologia familiare e il rapporto psicologico con la
cultura politica e religiosa.
Infatti, il nodo principale rimane il
grado di astrazione consapevole e di intenzionalità pianificatrice col quale si
attuavano quotidianamente i programmi di vita e il profilo di ideazione alla
base delle azioni non previste ma dettate dalle circostanze. Gli stili comuni
caratterizzano le forme del costume, ma nascondono l’aspetto più importante per
la nostra esigenza di comprensione: quali e quanti conferivano senso al proprio
agire attraverso la coerenza fra principi e pratica in un’azione concepita
al fine di incidere sulla coscienza collettiva o che abbia generato effetti
e cambiamenti non volontariamente perseguiti, ma prodotti quali epifenomeni
di azioni pianificate per scopi personali o per ottenere vantaggi per la famiglia,
la casa o il gruppo sociale di appartenenza?
Come si fa a sapere, per rimanere
all’esemplarità metonimica di Pompei, se prevaleva in città la cultura della
casa fondata sulle regole di responsabilità, continenza e operosità, o se era
più seguita quell’interpretazione gaudente della vita pagana rappresentata tradizionalmente
dalla casa dei Vettii?[3].
Oggi sappiamo che non credere in una
vita ultraterrena o, al contrario, vivere nella prospettiva di un giudizio di
Dio su tutta la propria vita dopo la morte, influenza la psicologia individuale
in modo rilevante e caratteristico, anche se non sempre evidente. Una tale
differenza di atteggiamento può rilevarsi nel modo di interpretare la vita e concepire
quella dei propri figli.
Si pensi alla differenza che esisteva
presso gli Ebrei fra i Sadducei, che non credevano nell’esistenza di un’anima
immortale, e i Farisei del periodo aureo che credevano nell’immortalità dell’anima
e nella resurrezione nel giorno del Giudizio. I Sadducei, pur rispettando il
decalogo e le principali norme della Torah, non ritenevano necessario seguire
alcuna altra prescrizione, perché consideravano il rispetto della Legge finalizzato
a raggiungere serenità e benessere in armonia e condivisione d’amore col
prossimo, durante la vita terrena. Il popolo sadduceo giunse a un compromesso etico-politico
con i Romani e il loro stile di vita, perché condivideva, per molti aspetti, il
carpe diem romano e ne ammirava l’efficienza nella vita pratica, che
accresceva occasioni e possibilità nei giorni da vivere.
I Farisei, al contrario,
consideravano la vita terrena un tempo di prova per acquisire meriti davanti a
Dio, coltivando la purezza dell’anima, dedicandosi alla meditazione e all’osservanza
scrupolosissima di ogni prescrizione aggiuntiva che avrebbe potuto costituire
ragione di indulgenza nell’altra vita. I Farisei temevano di contaminarsi nell’incontrare
i pagani ed evitavano qualunque atteggiamento che potesse assomigliare a quello
tipico dei Romani, caratterizzato dalla mancanza di timore e sottomissione a un
Dio che scruta la coscienza.
Dunque, è lecito supporre che una
parte non trascurabile dello stile psicologico dei nuclei familiari costituenti
il tessuto culturale dei popoli che ci hanno preceduto, sia stato improntato
dal credere o non credere in una vita ultraterrena.
Per rendersi conto di quanto questa
differenza di fondo possa influenzare lo stile psicologico in rapporto alla
vita di relazione, è sufficiente soffermare l’attenzione sulla comune
possibilità di incorrere in una trasgressione morale. Se per il trasgressore l’errore
esiste solo come rilievo di uno sbaglio da parte di qualcuno, basta
nasconderlo alla vista per averlo eliminato; se il trasgressore è credente, sa
di aver commesso un peccato: l’errore è stato letto da Dio nell’anima e
non si cancella con astuzie e furberie, perché esiste in assoluto e attiene
alla dimensione qualitativa dell’essere.
Le due condizioni morali dello
spirito corrispondono anche a due diverse potenzialità psicologiche e neurofunzionali:
il trasgressore che non ha introiettato il giudizio divino si può facilmente
avvalere della capacità astuta di rappresentarsi in modo positivo agli altri
per conservare equilibrio ed autostima, preservando il tono dell’umore connesso
ad una prova efficace di equilibrio psicoadattativo; il trasgressore credente,
se non ha modo di emendarsi e ritrovare serenità attraverso il perdono
sacramentale, vive uno stato di colpa con effetti simili ad una condizione di stress
che, sommata ad altre, può compromettere il tono dell’umore e ridurre l’autostima.
Le neuroscienze ci hanno insegnato
che questi due stati psicologici corrispondono a due differenti regimi
funzionali del sistema nervoso centrale, col primo che esprime un
rapporto ottimale di integrazione fra l’attività dei grandi sistemi cerebrali e
il secondo che riflette uno squilibrio dovuto ad eccesso funzionale dei
sistemi neuronici che mediano la risposta allo stress, simile ad uno
stato di entropia col dispendio energetico improduttivo dell’ansia, che sottrae
risorse ai circuiti neuronici importanti per la stabilità interiore e la forza
psichica.
Il furbo di tre cotte, come si dice
in Toscana[4], o “figlio di buona donna” come si dice dappertutto, è una persona che non
patisce sensi di colpa, sia per costituzione endofenotipica
cerebrale iporeattiva, sia per aver sviluppato
una distanza interiore dalle cause di stress e dispiacere.
Tale stile funzionale caratterizzato
in termini cognitivi e descritto dagli autori classici negli eroi come Ulisse,
dotati di quella particolare risorsa dell’intelletto chiamata metis e
personificata dalla divinità figlia di Oceano e Teti, non è semplice astuzia,
ma una capacità di ingegno esercitata con lucidità e “sangue freddo”, ossia
senza ansia da stress, anche nelle circostanze più difficili.
Un tale stile psico-comportamentale,
che nella psicologia di relazione si basa sulla capacità di fingere, recitare e
ingannare il prossimo, non è compatibile con la concezione cristiana – e
infatti Dante colloca Ulisse all’Inferno – ma apparteneva profondamente alla
radice antropologica greca. Il mito, contestato da Aristotele, dell’invenzione
della commedia da parte di Susarione di Megara nasce
proprio dalla tradizione, riportata in innumerevoli documenti, del popolo di
quella città di vivere di espedienti, camuffamenti, raggiri, inganni, in una
costante recitazione di ruoli improvvisati lungo le vie, nelle piazze e nei
mercati sempre gremiti di gente, che era allo stesso tempo interprete e
pubblico sul palcoscenico della realtà[5].
La vita organizzata su base
ateistica o pagana può facilmente essere concepita tutta in funzione della forma
rappresentata agli occhi e alla coscienza degli altri: pura esteriorità.
La vita del credente di tradizione giudaico-cristiana, quando autentica, è
tutta rivolta alla sostanza della realizzazione della volontà divina.
Senza troppo forzare, si può riconoscere
anche in queste due tendenze la prossimità con le due visioni contrapposte
della bellezza, ossia perfezione della forma o manifestazione del valore
interiore.
In base a queste considerazioni, il
paragone generico fondato su una caratterizzazione tipica o prevalente,
tra soggetti di età romana e soggetti di età cristiana, può suggerirci delle
ipotetiche e ragionevoli deduzioni, che sfortunatamente non possono essere
verificate. Ad esempio, si può dedurre che, in una personalità sviluppata ed
educata al cimento con gli dei, l’autostima potesse più spesso esprimersi in
atteggiamenti di indipendenza e coraggio sociale fino alla sfrontatezza e alla
tracotanza; mentre, in una personalità formata al timor di Dio e all’amore del
prossimo, l’autostima potesse più spesso supportare l’esercizio gratificante
della capacità di perseverare nell’umiltà, così come nella fortezza e nella
temperanza, realizzando la sottomissione obbediente ai comandamenti.
Il modo di sentire poteva influenzare
i gusti, come è sempre accaduto e accade anche oggi, supportando forse anche per
selezione sociale l’affermarsi di uno stile: una ragazza col primo tipo di
sensibilità sarebbe stata attratta da un giovane con un atteggiamento disinvolto,
dominante e disinibito, che a una vergine cristiana magari sarebbe apparso rozzo,
sgradevole e villano.
Da meno di un secolo si cerca di conoscere,
attraverso la storia della civiltà, i tratti psico-antropologici dei popoli
antichi; ma si sconta il problema di una lunga tradizione in cui la storia
insegnata a scuola riguardava quasi esclusivamente i grandi avvenimenti politici
e politico-economici[6], relegando gli altri argomenti alla dimensione del trascurabile o, all’opposto,
dello studio specialistico. Anche se oggi misconosciuta, dimenticata o non
compresa, la ragione più profonda per cui si studia la storia è l’espansione
della coscienza attraverso la comprensione del passato.
La sola cosa che possiamo fare per
amore della conoscenza è tenere vive tutte le possibilità suggerite dalle tracce
archeologiche e non oscurarne una parte, come accade a chi si lasci attrarre
dall’uso di stereotipi semplificativi ricorrenti in alcune narrazioni
didattiche e nella maggior parte di quelle divulgative e cinematografiche.
Uscito dalla domus, mi sono soffermato
sulle riflessioni che ho appena scritto, ma nella mia mente c’era già la
domanda: cosa lega quel mondo romano alla cultura medievale?
Nel tempo, con la lettura di molti
saggi, mi sono convinto che la differenza principale tra le due epoche sia
tutta nel registro della rappresentazione storica, e dunque sia, per
certi versi, fittizia. Sarò più chiaro.
La cultura ellenistica[7] è rappresentata dalla solare immagine di templi che si stagliano contro il
cielo azzurro di una natura incontaminata, dove tradizione religiosa e saggezza
filosofica dei Greci erano diventate romane e, pur con le differenze esistenti
tra i due popoli, fornivano attraverso i miti la chiave per una gestione poetica,
narrativa e creativa dell’attualità, collegata dall’oratoria pubblica all’eredità
del passato e alle speranze del futuro. Un quadro in totale antitesi col plumbeo
grigiore della società medievale rinchiusa in torri e castelli isolati da
fossati, rappresentata da uomini nascosti dentro pesanti armature e castellane
prigioniere in fortezze inaccessibili; dove saggezza e sapienza non sono
trasmesse con l’oratoria nelle piazze, ma vergate a fatica, a lume di candela, da
monaci amanuensi miniatori nell’isolamento claustrale.
Si tratta del confronto artificioso
tra due stereotipi che, pur fondandosi su elementi reali e fattuali, non sono a
rigore comparabili, perché il secondo dei due è ottenuto raccogliendo caratteri
emblematici e distintivi che sono andati sviluppandosi progressivamente,
comparendo e affermandosi in un arco temporale di circa un millennio.
Certamente, nei secoli che seguirono
Costantino, con la diffusione dell’insegnamento dei Padri della Chiesa e la
conquista delle coscienze in tutto il territorio dell’Impero da parte del
cristianesimo si era compiuta una metamorfosi radicale che dovrebbe essere distinta
dal semplice cambiamento nello stile di vita. Una copiosa storiografia ha
tradizionalmente messo insieme cause ed effetti della regressione e stagnazione
culturale per farne un emblema negativo all’insegna del quale interpretare
tutto il periodo. Negli anni recenti i grandi medievalisti ci hanno invece
presentato una realtà molto più complessa, con luci ed ombre non riducibili allo
schematismo elementare adottato in passato. Nel Medioevo si sono avuti tanti “Rinascimenti”
che sono rimasti confinati nella sede di origine, per l’isolamento dei popoli e
dei singoli.
A questa caratteristica si dà in
genere la motivazione della militarizzazione della società, e con buone
ragioni: basti pensare alle case-torri che ancora si possono ammirare in
Firenze, fra le quali le famiglie alleate costruivano dei collegamenti sospesi
per trasferirsi dall’una all’altra senza correre il rischio di incontrare in
strada membri di famiglie appartenenti alla fazione rivale. Ma spesso si
trascurano ragioni che hanno avuto un peso anche maggiore nel condizionare le
abitudini sociali.
La lebbra è stata endemica in Europa
per tutto il Medioevo e la paura del contagio attanagliava tutti: leggi che
ordinavano la segregazione dei lebbrosi, ne punivano severamente il matrimonio
e disponevano la costruzione di lebbrosari furono emanate già da Rotari, da
Pepino (757) e da Carlomagno (789), anche se poi la massiccia costruzione dei
lebbrosari avverrà nei secoli successivi. È documentata l’esistenza di oltre
19.000 di questi edifici, 2.000 dei quali nella sola Francia[8], e in Italia anche il più piccolo centro abitato aveva almeno un
lebbrosario[9]. I lebbrosi autorizzati per qualche ragione ad uscire dal confinamento dovevano
indossare abiti particolari, costellati di sonagli che tintinnavano ad ogni
movimento, per allontanare chiunque fosse nel raggio di centinaia di metri.
Dove si sapeva che c’erano stati dei lebbrosi, la gente non voleva più passare.
Le frequenti epidemie di peste hanno
in quell’epoca anche dimezzato il numero degli abitanti di una città, come era
accaduto in Firenze, ed erano temutissime, come si legge nei diari e nelle
lettere degli artisti. Il solo modo per proteggersi dal rischio di un incontro
mortale era rimanere in isolamento nelle isole domestiche o monastiche. Anche
ripararsi rimanendo chiusi in un rifugio durante quello che oggi chiamiamo il “picco
dei contagi” era ormai costume nel XIV secolo, come si evince anche dal Decamerone,
scritto nell’anno successivo all’epidemia di peste nera che aveva mietuto
vittime in tutta Europa.
Isolamento e coscienza sorvegliata
dal “vivere alla presenza del Signore” sono sicuramente due elementi
imprescindibili per comprendere il modo di sentire medievale che, interpretato
come cambiamento estetico, si tenta di desumere e dedurre paragonando i
frontoni dei templi alle guglie gotiche o le decorazioni del terzo stile
pompeiano alle miniature dei codici.
Anni fa ho potuto ascoltare Umberto
Eco, indotto a ritornare sul suo libro più noto, Il nome della rosa,
raccontare di aver cercato con ogni mezzo e artificio di immergersi nella realtà
del passato per riuscire a indurre la sua mente a pensare come quella di un
monaco medievale, per riuscire ad entrare in quell’ordine di idee, in quell’orizzonte
ontologico, in quella dimensione metafisica del rapporto con l’ordine simbolico.
Aveva compreso che, per soddisfare la sua esigenza di conferire sostanza umana
attuale a un racconto storico profondamente calato nel sistema di segni del
passato, non fosse sufficiente un’operazione logica di immedesimazione della sua
cognizione con quella che la verosimiglianza di un copione teatrale poteva
attribuire a un personaggio di quell’epoca: era necessario provare a mutare il
modo di sentire, cercare di entrare con la propria vita mentale nell’orizzonte
affettivo della spiritualità di un uomo consacrato del Medioevo.
È proprio questa propensione a
entrare nella dimensione mentale di un soggetto storico che mancava a Foucault
per poter realmente essere, come amava definirsi, un archeologo del sapere[10].
7. Qualche passo in punta di
piedi nel Medioevo in rispettoso ascolto dei grandi. In occasione del ritrovamento
di nuovi codici vergati da Francesco Petrarca, presso le sale del complesso
monumentale di San Lorenzo in Firenze fu allestita, con gli affascinanti e
preziosi tomi dell’autore del Canzoniere, una grande mostra che visitai
più volte anche per il piacere di conversare con una preparatissima
organizzatrice che ci concesse in via eccezionale il privilegio di sfiorare con
le dita alcuni frontespizi e si rivelò interessata allo studio su Pontormo che
avevamo condotto in collaborazione con gli Uffizi, l’Accademia di Firenze e la
RAI[11]. Per me fu l’occasione per rendermi conto che gli esegeti dei testi petrarchiani
avevano rotto gli indugi e proclamato quanto si poteva solo intuire dalla
lettura delle opere più note: Petrarca era un filosofo.
L’appellativo era ritenuto poco
confacente a un uomo di profonda e sincera spiritualità cristiana e, dunque, i
suoi contemporanei preferivano identificarlo con i titoli ottenuti per la sua
arte letteraria; ma il motivo per cui credo possa esserci di grande aiuto al
fine di cercare di entrare almeno un po’ nella dimensione psichica del tempo è
il suo alto grado di coscienza individuale congiunto ad un raro livello
di consapevolezza storica.
È sempre difficile avere una visione
oggettiva della realtà in cui si è immersi; pertanto, rendersi conto della sua capacità
di analisi secondo la distanza prospettica di un nostro contemporaneo, è sorprendente.
Francesco Petrarca conia il termine “Medioevo”, che sarà tradotto in tutte le
lingue scritte e adottato in tutto il mondo, presagendo tempi avvenire in cui
la cultura, sia pure in forme diverse da quella classica, si sarebbe completamente
espressa nutrendo sé stessa in forme dinamiche di crescita ed evoluzione.
Nel Secretum,
l’opera latina in cui vuole scandagliare il più profondo segreto della sua
anima, Petrarca usa lo strumento del dialogo platonico, che aveva
appreso dai testi latini delle traduzioni di Cicerone, per affrontare il nodo
della sua inquietudine spirituale che genera sofferenza psichica. Ma, traduciamo
la frase finale dell’opera che poi diverrà il titolo per intero, perché
contiene lo scopo e il programma del lavoro di analisi psichica che il cantore
di Laura intende svolgere: Secretum o De
secreto conflictu curarum mearum.
Dopo il “De” di argomentazione (“riguardo”,
“circa”) la parola latina sta ad indicare più ciò che è profondo e pertanto “inaccessibile”,
come nella locuzione “le segrete del castello”, che ciò che è segreto in quanto
taciuto. In altri termini, la dimensione psichica che sei secoli dopo sarà
considerata nell’ordine dell’inconscio. Il termine conflictu
indica con precisione la causa del turbamento spirituale e della sofferenza
psichica. Curarum: il vocabolo “cura”, comune al
plurale nell’italiano antico per indicare le ansie, le angosce e le
preoccupazioni, ancora è impiegato nelle versioni italiane dei Vangeli con lo
stesso significato. Nell’insieme si può rendere così: Riguardo il profondo
conflitto delle mie angosce.
I protagonisti del dialogo sono Sant’Agostino,
Petrarca e una donna silente: la Verità[12].
Agostino raccomanda a Petrarca un
costante pensiero rivolto alla morte, non intesa in astratto ma quale termine
della propria vita, la cui attualizzazione accresce la consapevolezza del
presente, e inizio della vita ultraterrena, che può essere il patimento eterno
per chi rimane come il poeta nell’accidia dell’indecisione alla completa
rinuncia a sé stesso per la santità. Ma la morte deve essere pensata ma non sentita.
Cosa si intende? Si intende che non si deve correre il rischio di entrare nella
dimensione mortale dei sentimenti: oggi diremmo che non si deve entrare nello
stato mentale psicopatologico della depressione che, per la sua capacità
di distruggere senso, si configura già come morte nella vita, tradendo ciò che
Gesù ha sempre ricordato[13].
È interessante e moderna la paura
che si possa cadere in depressione, una nefasta possibilità da scongiurare: la
melanconia è “una funesta peste dell’anima”, e quando si è presi da questa
malattia, aegritudo, il cui solo nome fa
inorridire, si rimane prigionieri[14]. Da temersi più di altre “passioni” che portano a peccare, perché sono
passeggere, mentre questa non lo è: perdura ed è come la presenza nell’anima di
“una notte tartarea e di un’acerbissima morte”[15].
Petrarca non aveva strumenti di
conoscenza e lessico per distinguere un moto dell’animo o una pulsione da
uno stato mentale, e usava in tutti i casi il termine latino che traduciamo
con “passione” secondo il gergo religioso, ma comprendiamo perfettamente cosa
voglia dire e facilmente desumiamo la sua sofferenza ansioso-depressiva,
associata al timore di cadere in uno stato più grave di anaffettività e abulia.
Possiamo anche dedurre che lo stato depressivo in cui viveva perdurava già da
un po’ di tempo ed era diventato equilibrio psicoadattativo, cosicché, pur desiderando
guarire, non riusciva ad uscire dai circoli viziosi del suo stato, come accade
ai pazienti ancora oggi: “…mentre mi pasco di lacrime e dolore sono afferrato
da una sorta di oscuro piacere, tanto che malvolentieri me ne distacco”[16].
La dimensione profonda della
sofferenza psicologica di Petrarca, oltre ad essere di estrema attualità come ogni
autentica espressione dello spirito umano che non muta mai nella sostanza, ci fornisce
i termini di una sensibilità cristiana allo stato puro, non compromessa con
istanze, imperativi e abitudini neopagane come tanto spesso accade oggi.
Basterebbe anche solo il Secretum per comprendere
cosa e come sia la bellezza in Petrarca.
Per il divin poeta, invece, c’è il
problema di una combinazione di criticabili schematizzazioni didattiche, avversione
pregiudiziale da parte di alcune generazioni di studenti[17], atteggiamento snobistico degli intellettuali ideologici e denigrazione
parodistica degli aspetti meno compresi del mondo medievale, che nemmeno anni
di spettacoli di Roberto Benigni dedicati alla lettura e alla recitazione della
“Commedia” sono riusciti a neutralizzare. In particolare, rimane la
banalizzazione canzonatoria dei sonetti amorosi.
Il programma del dolce stil novo di Dante
Alighieri a Firenze e Guido Guinizelli a Bologna non
è mettere insieme un po’ di pensieri melensi e frasi sdolcinate per ottenere i
favori di fanciulle tanto affascinanti quanto rigorose nella loro
irreprensibile condotta morale, ma educare le coscienze con l’arte poetica alla
bellezza dell’amore, concepito nella purezza divina della bontà, per tentare di
cambiare lo spirito di un mondo che si professava cristiano ma era percorso da
odio inestinguibile, brama di potere, grettezza d’animo, crudeltà barbara e
ferocia militare. Un mondo che aveva frustrato le speranze dei giovani di quella
generazione, a cominciare dal concittadino quasi coetaneo del sommo poeta,
Giotto di Bondone, che aspirava ad evangelizzare, civilizzare e ingentilire con
la sua pittura i contemporanei[18].
Dante desiderava ritornare alla
spiritualità autentica delle comunità cristiane degli inizi, che mille anni
prima aveva suscitato l’ammirazione dei pagani; quella sincera e convinta
adesione al logos evangelico lontano dalla secolarizzazione della chiesa
e dai compromessi con i poteri e le logiche del mondo che cancellavano l’agape
fraterna in una società capillarmente militarizzata. Per una umanità rinnovata
nel Cristo sceglie come modello le donne, che non girano per le vie
della città con la spada al fianco, non tendono agguati ai rivali di parte o
fazione, e non uccidono fratelli in battaglia chiamandoli nemici. Sceglie le
donne pure, che vivono la castità non come l’astinenza stoica del soldato, ma quale
obbedienza che accresce la propensione al dono spirituale di sé sull’esempio di
Maria.
Nel celebre sonetto Tanto gentile
e tanto onesta pare Dante celebra la bellezza spirituale di Beatrice, rendendola
per metonimia con due termini, il primo dei quali si riferisce alla delicatezza
espressa nei modi, e il secondo alla probità dell’animo. La sua virtù è cristianesimo
incarnato e interpreta la divina volontà alla quale rimanda, generando nella
coscienza del peccatore un sentimento di indegnità, che ne inibisce lo sguardo
e ci fa pensare alla sensazione di vergognoso pudore provato da Adamo ed Eva
dopo aver peccato, quando si accorsero di essere nudi al cospetto di Dio[19]. Beatrice, come donna e prototipo, è bellezza, e rendere a parole il suo
modo di essere è arte, come lo è quella del pittore che riproduce quanto è ammirevole
nel creato.
Dante insegna che nati non fummo
a viver come bruti / ma per seguir virtute e
conoscenza, ossia percorrere le vie del conoscere per trovare la sapienza
ed esprimerla poi attraverso la pratica delle virtù. Ma ciò è possibile solo se
si concepisce quanto si è conosciuto e compreso secondo l’astrazione dell’obiettivo;
e in tal senso: essere uomini è avere ideali e impiegare tutte le forze
e le risorse di volontà di cui si dispone per poterli realizzare[20]. Per Dante è questo il modo migliore per mettere a frutto i talenti
ricevuti, nell’accezione metaforica della parabola, e compiere il progetto
divino che esiste per ciascuno di noi.
[continua]
L’autore della nota ringrazia la
dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura degli scritti di argomento connesso che appaiono nella sezione
“NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).
Giuseppe Perrella
BM&L-01 maggio 2021
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presso l’Agenzia delle Entrate di Firenze, Ufficio Firenze 1, in data 16 gennaio
2003 con codice fiscale 94098840484, come organizzazione scientifica e culturale
non-profit.
[1] Il thermopolium
di Asellina in Via dell’Abbondanza, finora proposto ai visitatori come prototipo di fast-food
del I secolo d.C. e simile a quelli di Ostia antica, aveva incassate nel banco
giare contenenti cibi caldi e bevande fresche.
[2] Raffigurate con colori bene conservati,
intensi e vivaci, una coppia di oche germane destinate alle braci accanto a un
gallo vivo e realistico; in un riquadro successivo, bordato di nero come il
primo sullo stesso fondo giallo cromo scuro, un cane tenuto al guinzaglio. Nel
pentolame di coccio sono stati reperiti resti di capretto, lumache, una sorta
di paella di carne e pesce, accanto a vino corretto con le fave e pronto
per la mescita.
[3] Portata alla luce nel 1894 e
restaurata nel 2016, la casa dei ricchi commercianti Aulo Vettio
Restituto e Aulo Vettio Conviva presenta, fra i dipinti
che la decorano, la figura di un Priapo che pone sul piatto di una bilancia il
membro con un sacchetto di monete come contrappeso. Una simbologia decisamente lontana
tanto dallo stoicismo ellenistico quanto dal nascente cristianesimo italico. Risulta
che i Vettii, candidati al governo della città,
conducessero vita dissoluta.
[4] L’espressione risale a Pietro Aretino,
verosimilmente derivata dal superlativo conferito alla raffinatezza dello
zucchero dalle tre cotte o cotture.
[5] Per questa prerogativa accostata
a Napoli che, secondo alcuni, avrebbe avuto una socialità recitativa perché fondata
nell’800 a.C. dai Cumani, che avevano origine greca. Megara, rivale di Atene, fu patria del matematico Euclide e del poeta di
elegie Teognide.
[6] Ai protagonisti di tali eventi, quali re, imperatori, governanti e capi
degli eserciti, così come alle figure rilevanti e celebrate in ogni campo di
attività umana, implicitamente si attribuivano facoltà di pensiero, riconoscendo
il ruolo di “testa” di un organismo sociale, in cui tutti gli altri sono
implicati quali membra non pensanti, prive di personalità e dignità
individuale, a meno che non si esibiscano storicamente in qualche impresa
memorabile.
[7] Intesa nell’accezione più
estensiva di Ariès e Duby
e non limitata al periodo che termina con la nascita dell’Impero Romano: cfr. Philippe Ariès e Georges Duby (a cura di)
La vita privata dall’Impero Romano all’anno mille, CDE (su lic. Laterza), Milano 1987.
[8]
Hirsch, Handbook of Geographical and Historical Pathology, p. 7, Creighton,
London 1885.
[9] Antonio Ludovico Muratori (a
cura di) Antiquitates Italicae
Medii Aevii, III volume,
53, ex Typographia Societatis
Palatinae in Regia Curia, Mediolani
1740.
[10] Lungi da me l’idea di paragonare
un filosofo e storico, qual era Foucault, a un linguista appassionato di
semiologia e dedicato alla narrativa, come Eco. Mi riferisco qui solo alla capacità
di cogliere la psicologia dei soggetti storici.
[11] In precedenza erano stati
catalogati, grazie a ventisei collaboratori di Michele Feo nel 1991 (“Le
Lettere”, Firenze), 251 codici petrarcheschi reperiti presso le biblioteche
fiorentine.
[12] In passato, ho proposto analogie
e differenze con il setting psicoanalitico e con il rito psicoterapico ante
litteram che si svolgeva presso il santuario di Trophnios
a Lebadea in cui esisteva il trono di Aletheia (la Verità) e il conflitto della persona in ansia
era gestito tra “memoria” e “dimenticanza”.
[13] “Il Padre ha creato tutto per la
vita” e “Lasciate che i morti seppelliscano i propri morti” erano frasi
evangeliche di uso quotidiano all’epoca.
[14] Cfr. Franco Rella, Figure del
male, p. 88, Feltrinelli, Milano 2002.
[15] Cit. in Franco Rella, op. cit.,
idem.
[16] Traduzione dal latino tratta da Franco
Rella, op. cit., idem.
[17] Una realtà resa bene nella sua
granitica superficialità da Paolo Virzì nei giudizi espressi dal protagonista del
film “Ovosodo” sugli autori della letteratura
italiana all’esame di stato.
[18] Si vuole che anche nell’opera
che non poté compiere, cioè il celebre campanile, vedesse un mezzo di suggestione
simbolica per l’elevazione spirituale del popolo.
[19] In sostanza, la radice culturale
del sentimento cristiano che ritroviamo in Gregorio di Nissa
e di cui ho scritto in precedenza (Note e Notizie 06-03-21 Ritrovare nei segni
le ragioni della bellezza).
[20] In passato ho conversato molte
volte su questi argomenti con don Roberto Tassi, allora presidente di un’antica
e prestigiosa società dantesca fiorentina, oltre che rettore della Chiesa di
Dante in Firenze.